Nella contea di Veszprém, a nord ovest dei territori ungheresi, saggia e silente si erge la collina di Somló. Curioso dimenticarsi per un istante la regione del Tokaj, con i suoi straordinari vini dolci, per immergersi nei più remoti angoli dell’Ungheria. Con i suoi 432 metri sul livello del mare e poche centinaia di ettari in totale, rappresenta la denominazione più piccola dell’Ungheria, già conosciuta in epoca romana per la qualità delle uve e le peculiarità del territorio, ma soprattutto per i vini, tutt’altro che dolci.

Come la maggior parte dei rilievi circostanti, anche Somló in passato era un vulcano ma, ciò che lo rende capace di distinguersi dai suoi coetanei è la presenza di una tipologia di basalto difficilmente riscontrabile altrove. Per comprenderne la composizione, è necessario voltarsi indietro nella storia fino all’era del Cenozoico dove, milioni di anni fa, il paesaggio pianeggiante che siamo abituati a vedere oggi, era ricoperto dal grande mare pannonico. Una volta ritiratosi, le eruzioni vulcaniche, a contatto con l’acqua, che impregnava le sabbie appena emerse, generarono una grande quantità di vapori che assieme ai gas, sprigionati dalla normale attività vulcanica, rimasero intrappolati all’interno della lava. La risultante, che è possibile tuttora ammirare, è un basalto friabile, poroso che alla sua disgregazione genera un pietrisco irregolare denominato, in ungherese, “Kukorica bazalt” ed in inglese “Corn basalt”.
Basalto, argilla, sabbie e loess rappresentano la matrice dominante del suolo della collina, il cui clima sub-mediterraneo e l’alchimia degli elementi che si fondono tra le mani dell’uomo, hanno dato vita ad una regione unica in cui la simbiosi tra ambiente naturale ed artificiale fa pensare che qui il tempo scorra più lentamente che dalle altre parti.
Tranne alcune eccezioni, la maggior parte dei produttori non supera i 10 ettari vitati, ridisegnando i lineamenti della collina come fossero un mosaico composto da piccole porzioni di terreno, delimitate da muretti a secco. Tutte le operazioni in vigna avvengono manualmente, sfidando, in passato, anche le rigide regole imposte dal regime socialista, di cui, ancora oggi, se ne respira la triste eredità. Durante il mio viaggio ho avuto modo di visitare diverse aziende, guardare negli occhi i produttori, ascoltare le loro storie, le loro ambizioni. Le difficoltà del voler essere protagonisti nella vigna e non imprenditori, il valore della tradizione ma al tempo stesso dell’integrazione e della ricerca di un moderno sostenibile. Ma soprattutto sono rimasta colpita dai vini. Il carattere, la grinta, l’esplosività gustativa con cui si presentano. Sembrano voler comunicare tutto e subito ed invece stupiscono ancora una volta per la loro persistenza dal retrogusto salino, roccioso. Vini d’impatto ma che conservano gelosamente la loro eleganza.
Come per il Tokaj, anche qui la prevalenza dei vitigni impiantati è a bacca bianca: Olaszrizling (Riesling Italico), Hárslevelű e Furmint, sono le varietà maggiormente presenti. Da diversi anni, tuttavia, è stato possibile recuperare un’altra varietà, sull’orlo dell’estinzione, lo Juhfark o Coda di Pecora, che deve questo particolare nome alla forma conica e compatta del grappolo, spesso paragonata alla coda dell’animale. È un vitigno di difficile gestione poiché sensibile all’andamento climatico irregolare, ma capace di interpretare il terroir come pagine di un libro ancora da scrivere. Carattere deciso, che non ammette compromessi se non quello di sfidare il tempo in attesa di essere degustato.
Diversi sono gli stili e le interpretazioni, specialmente se si paragona la nuova generazione, che vede cominciare la propria avventura agli esordi del ventunesimo secolo, e la vecchia generazione, custode delle antiche tradizioni vitivinicole. Ognuno con i propri mezzi ha riversato sé stesso sulla terra che coltiva, dando vita a ciò che può essere tradotto in una sorta di specchio dell’anima, dorato, intenso, teso o fragrante, ma più di ogni altra cosa sincero… Pronti per scoprirli tutti insieme? stay connected!
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